Arrivederci (forse), Russia

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Nella drammaticità degli eventi in Ucraina, la guerra si combatte anche sul fronte digitale e sul posizionamento delle imprese occidentali sui temi etici. 

Le reazioni alla guerra in Europa hanno indotto molti brand a decisioni, di natura e durata mutevoli all’evolversi della situazione, sull'assetto delle proprie operazioni in Russia. Se molti hanno proceduto alla sospensione o alla cancellazione delle attività, altri hanno scelto approcci più misurati e altri ancora, invece, hanno optato per la continuità. Nella drammaticità degli eventi in Ucraina, la guerra si combatte anche sul fronte digitale e sul posizionamento delle imprese occidentali sui temi etici. Questo sarà un punto di non ritorno nel confronto sul mercato, dove sarà necessario misurarsi con i rischi e le incertezze di relazioni globali, difficilmente prevedibili ed esterne all'ambito abituale delle strategie aziendali.

È lunghissimo l’elenco dei brand che, in conseguenza della crisi ucraina, hanno deciso provvedimenti, più o meno gravi, sulla propria presenza in Russia. Sarà, poi, sicuramente diverso al momento in cui questo articolo sarà pubblicato. A oggi, dalla A (Apple) alla Z (Zara), il gruppo delle aziende che si sono dichiarate formalmente ostili all’intervento militare della Russia è in continuo allargamento.

Russia, necessità e virtù

La casistica delle reazioni alla guerra in Europa è ampia, e queste cambiano all’evolversi della situazione. Se molti brand hanno proceduto alla sospensione o alla cancellazione delle attività in Russia, altri hanno scelto approcci diversi: Etsy, per esempio, ha cancellato i crediti vantati dal marketplace sui rivenditori ucraini. C’è chi ha puntato con forza sul supporto alle organizzazioni umanitarie per le operazioni di soccorso e chi, invece, ha preferito azioni drastiche. È il caso di Amazon, che non solo rifiuta la consegna di prodotti in Russia, ma sta operando restrizioni anche su Amazon Web Services e Prime Video.

Le sanzioni sulle banche hanno reso molto difficile le transazioni in Russia, per pagare i dipendenti e le utenze, i partner e i fornitori. Alcuni, come Levi’s, hanno specificato che questo avverrà in valuta locale. Si tratta di valutare, naturalmente, la sostenibilità dell’operazione nel tempo,

Con le banche del paese tagliate fuori dal sistema di scambio monetario internazionale e spedizionieri come DHL, FedEx e UPS che sospendono o limitano le consegne, del resto, la strada per molti attori del lusso porta inevitabilmente alla cessazione, sospensione o limitazione delle operazioni con la Russia.

Per la maggior parte dei rivenditori americani ed europei, peraltro, il business nel paese non ha dimensioni tali da pregiudicarne gli assetti commerciali internazionali. Per Levi’s, ad esempio, solo il 4% delle vendite nette proviene dall’Europa orientale, e solo per la metà di questo dalla Russia.

Il lusso e la moda

Tra i più forti per rinomanza e riscontro mediatico a ogni angolo del pianeta, il settore del lusso ha intrapreso un’azione commerciale e comunicativa forte. Secondo Vogue business, le vendite in Russia costituiscono circa il 5% del mercato mondiale, e sono in crescita costante da due decenni.

In un post su Instagram del primo marzo, Vogue Ukraine ha esortato “tutti i conglomerati e le aziende internazionali della moda e del lusso a cessare immediatamente qualsiasi collaborazione” con la Russia. Molti i brand di primo piano compresi nell’appello di Vogue UA, che invita l’industria della moda a “non mantenere il silenzio durante questi tempi bui, perché ha la voce più forte”.

Reazione pressoché immediata da LVMH (Christian Dior, Givenchy, Louis Vuitton, Marc Jacobs e Tiffany), con una donazione di emergenza di cinque milioni di euro alla Croce Rossa. Prada, sullo stesso social, ha comunicato il suo supporto a UNHCR come Kering, (Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga e Alexander McQueen) e ha sospeso le operazioni in Russia. Scelta analoga da parte di Hermès e H&M, mentre Net-A-Porter ha notificato ai clienti la non evasione degli ordini dal paese, e il suo principale concorrente, Farfetch, ha pubblicato una nota simile sul sito russo.

Particolare risalto mediatico è stato dato alla nota, ancora su Instagram, di Demna Gvasalia. Il direttore creativo di Balenciaga ha scritto che la guerra in Ucraina ha fatto riemergere il trauma della sua esperienza di rifugiato georgiano, e di non volere “arrendersi a ciò che mi ha già fatto tanto male per quasi trent’anni”.

Prospettive diverse

All’impatto emotivo immediato, e alle necessità di comunicazione che ne seguono, si sono poi aggiunte posizioni di maggiore apertura. Parlando prima della sua sfilata dell’autunno 2022 a Parigi, lo stilista Rick Owens ha detto di non pensare che “il popolo russo meriti di essere punito”.

Uniqlo, di proprietà della holding giapponese Fast Retailing, ha deciso di tenere aperti i suoi negozi in Russia. Il suo fondatore, Tadashi Yanai, ha affermato: “L’abbigliamento è una necessità della vita. Il popolo russo ha lo stesso diritto di vivere che abbiamo noi”.

Richemont (Azzedine Alaïa, Cartier, Chloé, Piaget e Van Cleef & Arpels) ha fermato le operazioni in Ucraina il 24 febbraio e ha sospeso le sue attività commerciali in Russia. E’ un fatto, però, che i russi più abbienti stiano accaparrando gioielli e orologi per preservare la loro ricchezza, e la situazione ha probabilmente favorito il business dell’azienda e degli altri marchi high ends. Questo, per esplicita opinione di Jean Pierre Babin, CEO di Bulgari, che ha anche aggiunto “siamo lì per il popolo russo, non per il mondo politico”.

Il vuoto lasciato dalle imprese occidentali potrebbe essere riempito dalla Cina.  Questa, almeno, è la convinzione di Tymofiy Mylovanov, già ministro dello sviluppo economico in Ucraina e oggi docente alla Pittsburgh University. “La Cina è perfettamente in grado di imitare i marchi, anche tecnologici”, e probabilmente lavorerà per soddisfare la domanda della classe media russa; alcuni brand potrebbero instradare le loro merci attraverso la Cina per aggirare l’Europa.

Mylovanov ha anche espresso perplessità sulle decisioni adottate dal retail americano ed europeo, sostenendo che queste potrebbero prestare riscontro alla narrativa di Putin sulla “cattiveria” dell’Occidente.

Interpretazioni e orientamenti

Secondo l’edizione 2022 del Trust Barometer, pubblicato ogni anno dalla società di comunicazione globale Edelman, è sempre più marcata la diffidenza verso le istituzioni e i media. Al contrario, cresce la fiducia riposta nelle imprese, grazie alla presunta, maggiore attenzione verso temi sensibili quali sostenibilità e collettività. La sintesi di Edelman è impietosa: “il business è ancora l’unica istituzione di cui ci si fida”.

Molte aziende di primo piano, di fatto, hanno sconfinato in territori normalmente occupati dalle ONG, fino al brand activism a favore di cause quali ambientalismo, inclusività, diritti sociali e LGBT, empowerment.

In questa logica, una presa di posizione sulla guerra è ineludibile, e non sarà, sicuramente, l’ultima volta. Va messa in conto, però, la possibile polarizzazione del confronto tra segmenti di consumatori diversamente orientati rispetto a un conflitto o a una causa. Vale la pena ricordare, negli Stati Uniti, la scelta di Nike di avere come testimonial il giocatore Colin Kaepernick, inginocchiatosi all’inno nazionale, e la violenta reazione da parte di Trump.

Ci sono, poi, gli scivoloni causati dall’ostentazione eccessiva di aderenza a valori morali, che possono ottenere l’effetto contrario a quello cercato. Come per l’Università di Milano Bicocca sul corso tenuto dallo scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, per esempio, oppure il blocco dell’accesso sui contenuti russi da parte di piattaforme online con decine di milioni di utenti.

La necessità, chiara, è per i brand il posizionamento di lungo periodo rispetto a un pubblico anche più ampio del target tipico di riferimento; con il rischio implicito, però, di dovere adeguarsi a contesti fuori controllo. L’intervento della Russia in Ucraina ha originato anche una guerra digitale quale non se n’erano viste, fino a oggi. Per i brand, le capacità e l’utilità di indirizzarla o di assumere neutralità, non avranno verifica a breve termine.

(a cura di Michele Caprini, Retex Group)

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