Le parole della moda: vita, veloce, usato

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I brand dovranno cominciare a concentrarsi sulle nuove priorità: accelerare il passaggio a un modello basato sulla domanda, ridurre la complessità dell'assortimento, gestire e promuovere la circolarità.

Nella moda, oggi, parole come fast fashion, lifewear, preloved sono indispensabili a tracciare le scelte e le prospettive di chi vende e di chi compra. I brand dovranno concentrarsi sulle nuove priorità: accelerare il passaggio a un modello basato sulla domanda, ridurre la complessità dell'assortimento, gestire e promuovere la circolarità.

Dopo il brutto colpo accusato nella pandemia, la moda guarda ai numeri e ai tempi della ripresa del mercato globale. Covid-19 ha devastato il profitto economico settore, sceso di oltre il 90% nel 2020. Secondo le stime di Statista, il tasso di crescita tra il 2021 e il 2025 sarà superiore al 7%, con un volume di mercato, al termine del periodo, di circa 1200 miliardi di dollari. Quasi un quarto dei ricavi, entro il 2023, sarà generato dalle vendite online.

Moda, parole vecchie e nuove

Andamenti diversi tra i vari comparti, ovviamente, per diversi modelli e diverse aspettative di sviluppo, da combinare alla diversità per eccellenza, data dalla domanda. Questa, negli ultimi anni, ha preso percorsi nuovi e, spesso, imprevedibili, che rendono necessaria una continua riconfigurazione del mercato per i vecchi e i nuovi attori.

Oggi, parole come fast fashion, lifewear, preloved sono indispensabili a tracciare le scelte di chi distribuisce e di chi consuma; tutte riconducibili a un elemento comune, la sostenibilità. Ce ne sono anche di peggiori, comunque: gira sempre più frequentemente il termine zombie brands, a indicare i brand che hanno perso il treno sul digitale, sono sottocapitalizzati e mancano delle risorse per investire nel futuro. Per questi, una sopravvivenza a termine.

La natura della moda veloce è evidente. L’industria tessile è il secondo peggior inquinatore del mondo, sia in termini di produzione che di rifiuti. Molti marchi hanno costruito un modello di business unico basato sulla velocità con cui i capi possono essere prodotti e inviati ai negozi. Dalla forsennata rotazione sugli scaffali hanno origine le grandi quantità di merce invenduta, con gli evidenti impatti sull’ambiente.

Purtroppo, i marchi non diventano sostenibili da soli: sono pressati dalla domanda, e combinarla con le necessità del conto economico non è una passeggiata. Il mercato globale fast fashion, comunque, dovrebbe rimediare al 2020 raggiungendo un valore di circa 40 miliardi di dollari nel 2025, a un tasso di crescita annuale del 7% (ResearchAndMarkets.com).

Lifewear e consapevolezza

In una recente intervista a Pambianconews, Alessandro Dudech, capo delle operazioni di Uniqlo Europe rifiuta, per la sua azienda, la definizione di fast fashion. “Innovazione, qualità, cura nei dettagli e quanto più lontano ci possa essere da una moda che promuove ricambio sugli scaffali e consumismo. Uniqlo si focalizza piuttosto sul rapporto qualità-prezzo e sulla longevità, che sconfina nella classicità, dei capi”.

Una sorta di manifesto del lifewear, a cui il gigante giapponese vuole legare la propria immagine sul mercato, esemplificativa della tendenza più generale dell’intero comparto mondiale verso la moda sostenibile. Nessun brand, del resto, può sottrarsi al bisogno di manifestare il proprio impegno (autentico, formale o semplicemente comunicativo) in questo senso. Gli appelli per una moda sostenibile, in verità, esistono fin dal flower power degli anni ’60, ma la consapevolezza del problema è aumentata irreversibilmente dal 2013, dopo il disastroso crollo del Rana Plaza.

Più in fretta, e peggio

Nel settore, è sicuramente molto difficile replicare casi come Patagonia, un modello virtuoso di business che resiste e si consolida nel tempo. Esistono le volontà ed esistono le necessità, quanto mai difficili ad armonizzarsi.

I volumi di produzione degli indumenti che crescono del 2,7% all’anno e meno dell’1% dei prodotti riciclati in nuovi indumenti. Il12% delle fibre viene ancora scartato in fabbrica, il 25% dei capi rimane invenduto e meno dell’1% dei prodotti viene riciclato in nuovi capi. Da tempo, il problema delle giacenze interessa diversi brand. Nel 2018, il caso Burberry sollevò clamore; nello stesso anno, Karl-Johan Persson, CEO di H&M, ammise che le scorte valevano quasi un terzo del totale delle attività. Tempo dopo, alcuni giornalisti danesi sostennero che H&M aveva incenerito quindici tonnellate di vestiti ancora utilizzabili. L’azienda replicò che i capi distrutti avevano difetti di fabbricazione.

Oggi, che qualcosa d’importante stia succedendo è innegabile e passa, inevitabilmente, dalla crescente consapevolezza al consumo. Preloved e thrifting sono le nuove parole della moda, che aiutano l’orientamento (al lordo, inevitabilmente, degli equivoci che accompagnano ogni movimento di successo).

La seconda arriva prima

Questo era il titolo che avevamo scelto, meno di un anno fa, per descrivere il mercato dell’usato. Ci sono sempre più consumatori che amano ridurre, riutilizzare, riciclare e sarà meglio non farsi ingannare da una visione miope del fenomeno, immaginandolo semplice rielaborazione contemporanea delle aspirazioni della nazione hippy. L’usato è, adesso, un business serio. I siti web che vendono capi preloved, come ThredUp (che elabora ogni giorno centinaia di migliaia di abiti usati), Vestiaire Collective e Poshmark, godono di fortuna crescente.

Una dimostrazione ulteriore arriva dai leader della moda veloce, che prestano attenzione e investimenti alla circolarità. H&M è l’ultimo ad entrare in questo spazio, con un marketplace che sarà lanciato il 7 settembre in Canada. Così, il colosso della moda veloce vede l’opportunità di acquisire nuovi clienti e rafforzare le sue credenziali di sostenibilità.

Il nuovo appeal

Il commercio thrifting gode di un ulteriore appeal tra i consumatori che non fanno del prezzo la discriminante d’acquisto, potendo permettersi di comprare nuovo, ma preferiscono l’usato per le preoccupazioni ambientali. Un recente studio di Bain & Co. in collaborazione con Depop, testimonia la crescente consapevolezza al riguardo da parte delle generazioni più giovani.

ThredUp ha condotto un rapporto in collaborazione con Global Data, che evidenzia lo stato del mercato resale nella post-pandemia. Questo è destinato a raddoppiare nei prossimi cinque anni, raggiungendo un totale di 77 miliardi di dollari. Ben 188 milioni di consumatori hanno effettuato il primo acquisto nel 2021: erano 36 milioni del 2020. Lo stesso rapporto ha evidenziato che il mercato del resale fashion sta crescendo ad un ritmo undici volte più veloce del retail tradizionale. Se ne ipotizza un valore 84 miliardi di dollari entro il 2030, contro i 40 miliardi di dollari della moda veloce.

I marchi dovranno concentrarsi sulle due nuove priorità: accelerare il loro passaggio verso un modello basato sulla domanda e ridurre la complessità dell’assortimento. La terza, decisiva, la stabilirà chi compra: pensando, prima di spendere.

(a cura di Michele Caprini, Gruppo Retex)